Qualche giorno fa siamo tornati a far visita a Casa di Gabri, a Rodero, uno dei tanti colori di quell’arcobaleno di umanità che è la realtà di Agorà ’97.
«La nostra comunità – ci spiega Sergio Besseghini, responsabile di Agorà ’97 – nasce con l’obiettivo di fare da ponte fra l’ospedale, laddove le complicanze di tipo sanitario siano così gravi da richiedere una gestione professionale nelle 24 ore, e la casa, perché questi bambini, al di là della malattia, hanno le comuni esigenze di ogni bambino sul piano della relazione e della crescita. Ecco, Casa di Gabri nasce nel 2009 proprio con questo obiettivo: coniugare l’aspetto sanitario con quello sociale ed educativo. All’epoca non esistevano sul nostro territorio strutture con questo modello organizzativo».
Quanti bambini avete accolto dall’apertura di Casa di Gabri?
«Più di cinquanta, a fronte di una capacità di accoglienza della struttura di dieci posti. Nel tempo ci siamo “modellati” sulle esigenze e i bisogni di ogni singolo bambino, e questo ci ha permesso di organizzare un contesto comunitario che tenesse conto della specificità di ciascuno. Per ogni bimbo è previsto un piano di assistenza individualizzato, nel quale sono definiti gli obiettivi di crescita, legati non solo agli aspetti sanitario, ma anche alla stimolazione basale, alla relazione e, in alcuni casi, alla scolarità. Uno dei bambini che accogliamo, ad esempio, sta seguendo un percorso scolastico, non essendo però nelle condizioni di poter frequentare una classe, sono le stesse maestre a venire in struttura. In questo modello unico di assistenza è compresa anche la telemedicina, attraverso la quale personale il personale medico può monitorare i parametri vitali di ogni bambino 24 ore su 24, anche quando non è presente in struttura. Si tratta di una modalità altamente innovativa che ha permesso alla Casa di Gabri di vincere, nel 2018, il premio Rosa Camuna di Regione Lombardia.
Quali sono le patologie dei bambini accolti?
«I nostri bambini sono portatori di patologie complesse, di estrema gravità e la cui esistenza è appesa a un filo. Per entrare in Casa di Gabri vengono valutati dall’ente pubblico, titolare della presa in carico del loro percorso, e devono avere compromesse almeno tre di queste aree: respiratoria, cognitiva, motoria e dell’alimentazione. Ci sono state situazioni alle quali non abbiamo potuto rispondere perché i bimbi non avevano caratteristiche di gravità tale da poter accedere alla nostra struttura. Allo stesso tempo in Casa di Gabri abbiamo vissuto percorsi assistenziali che hanno permesso di recuperare alcune condizioni di disabilità, al punto che i bambini interessati non risultavano più idonei a restare in struttura. Da lì il passaggio successivo che è consistito, in alcuni casi, nel ritorno a domicilio piuttosto che nell’avvio delle pratiche per l’affido».
Bambini con patologie gravissime, aspettative di vita non sono certo uguali a quelle dei loro coetanei e, a volte, privi di una famiglia.
Da sinistra Stefano e Sergio Besseghini
Qual è in senso del vostro impegno?
Ci risponde il responsabile di Casa di Gabri Stefano Besseghini. «Ciascuno dei bambini che accogliamo, oggi la più piccola ha un anno e mezzo, il più grande 17 – si porta dietro una storia personale di decorso della malattia. Quello che cerchiamo di fare è accompagnarli nel loro percorso di vita, qualsiasi tempo abbiano davanti, si tratta di bambini che difficilmente arrivano a superare i 18 anni, garantendo ad ognuno la miglior qualità possibile. Tradotto significa garantire una risposta adeguata ai bisogni primari, che sono essenzialmente respirare e mangiare. Così come la cura della mobilità: sono tutti bambini non in grado di muoversi in autonomia, per cui è importante assicurare loro il maggior confort possibile, su posture fatte su misura. A queste si sommano anche le esigenze tipiche di ogni bambino: il bisogno di instaurare una relazione, di essere amati, fino al poter esaudire i desideri più semplici, come giocare. Anche in questo caso le modalità per soddisfare tali bisogni mutano in base alle capacità dei bambini stessi. Per capirci: la relazione non passa attraverso una comunicazione normale, ma con stimolazioni e tecniche che permettono di interagire attraverso il tatto, il suono, piuttosto che con luci colorate, oppure usando metodi non convenzionali come la comunicazione aumentativa. Ci sono bambini che “sognano” anche solo di poter spingere una macchinina, ma da soli non possono farlo, e noi dobbiamo essere in grado di aiutarli. Questo significa cercare di loro la migliore qualità di vita possibile».
Quanto è difficile per chi lavora in questa struttura, doversi mettere in gioco in una dinamica di relazione “a scadenza”, dovendo investire nel breve e medio periodo…
«A sostenerci in questo percorso – prosegue Stefano – è la motivazione che ha portato ciascuno di noi a sceglie di lavorare qui. Molti nostri operatori hanno ricevuto una formazione specifica sul fronte delle cure palliative pediatriche. Sappiamo che non possiamo guarire questi bambini, ma siamo qui per curarli e farli stare nelle migliori condizioni possibili, e questo ci stimola ad andare avanti, anche se sappiamo che il loro percorso è breve. Ovviamente non siamo soli in questo viaggio. Ci avvaliamo del supporto di una psicologa, che ci segue in incontri individuali e di gruppo. Una volta al mese, inoltre, ci ritroviamo come equipe per rivedere insieme gli obiettivi che è sempre importante ricordarci per non lasciarci sopraffare dallo sconforto. Recentemente è deceduto un ragazzo che era con noi dal 2017. Il dolore di questa perdita si attenua con la consapevolezza di aver fatto quanto possibile per dargli il meglio».
Quanto è importante il volontariato in una struttura come la vostra?
«Essenziale – spiega Stefano Besseghini -. Prima del Covid avevamo una rete di volontari che ci permetteva di coprire quasi ogni giorno, regalando ai bambini quel contatto affettivo che a volte noi operatori non riusciamo ad avere nel rapporto uno a uno, viste le tante cose da fare. Qualche volontario teneva in braccio un bambino per un’oretta, o gli raccontava una storia. Tutto questo favoriva un’interazione personalizzata. Ovviamente durante il Covid abbiamo dovuto sospendere gli accessi, però ci è ugualmente riuscito di mantenere il gruppo attraverso delle videochiamate che permettevano ai volontari di rimanere aggiornati sulle condizioni dei bambini. Ora pian piano stiamo ritornando ai ritmi pre-Covid. Attualmente i nostri volontari sono circa una quindicina. Ci si può avvicinare a Casa di Gabri iscrivendosi alla nostra cooperativa di volontari Volagorà, per poi accedere con gradualità alla struttura».
«Ugualmente preziosi sono quei volontari che, pur non impegnandosi direttamente nella relazione con i bimbi di Casa di Gabri – conclude Sergio -, dedicano il loro tempo per sostenerci. Anche questo tipo di volontariato è per noi molto importante perché in qualche misura contribuisce a fare in modo che non manchino le risorse per aiutare questi bambini».
Per saperne di più: www.agorà97.it
Trovate l’intervista completa sul Settimanale numero 10